La grande Fiera di Santa Caterina (for non rivuleis dummies)

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Torroni e altre meraviglie. Foto di @Zuccaviolina

Se non sei rivolese puoi capire fino a un certo punto. Perché alla Fiera di Santa Caterina ci sarai pure venuto, se abiti a Collegno, o a Torino, ma porca miseria se stai a Rivoli Santa Caterina è praticamente la festa più importante dell’anno. Tutto il centro, da Corso Susa fino a strada Nuova Tetti, dal cimitero fino a via Piol la città è totalmente invasa da più di mille banchi di mercato di ogni genere: alimentari, abbigliamento, piante, cineserie e ciapapùer.

Il traffico è congestionato: la città è bloccata, ma il rivolese lo sa, e o esce a piedi, o accetta la sfida di passare decine di minuti in coda su corso Susa per raggiungere lo spiazzo di corso Torino, adibito a parcheggio, e che tanto sarà pieno.

Stando ai documenti d’archivio, avremmo notizia della fiera dai tempi del Conte Verde, anno del signore 1365. Certo è che a memoria di rivolese la Fiera è sempre esistita e nel suo cuore sempre esisterà. Indubbiamente coincide con la chiusura dei lavori agricoli, e infatti la sua vera natura è legata alla vendita degli ultimi prodotti della terra prima della grande pausa invernale, all’esposizione del bestiame e dei mezzi agricoli. Ed è l’ultima occasione pubblica di incontrare la comunità prima delle festività natalizie. Insomma, noi il Black Monday ce l’abbiamo da 7 secoli.

Il rivolese doc, infatti, non va alla fiera di domenica – turistica regressione recente per torinesi annoiati – ma ci va il lunedì. Ogni santo quarto lunedì di novembre che dio manda in terra da almeno 650 anni, il Rivolese si alza presto e va alla Fiera.

Quando ero bambino chiudevano le scuole, poi hanno ripristinato la ufficiale festa del Santo patrono che è Santa Maria della Stella ma che, parliamoci chiaro – e la madonna in questione non si offenda – ma non c’è storia. Tanto che poi i rivolesi a scuola a Santa Caterina non ci vanno lo stesso, un po’ perché raggiungere le scuole è un’impresa paragonabile alla conquista del K2, un po’ perché oh, scherziamo? C’è la Fiera. Comunque da bambino mio padre mi portava a vedere le mucche e i trattori. Cosa può esserci di meglio per un bambino di 8 anni che grossi animali e mezzi agricoli con ruote gigantesche? Le giostre naturalmente, ma anche le tonnellate di dolci di ogni tipo, torroni, mandorle caramellate, e pistacchi, lupini e qualsiasi altra leccornia vintage che possa venirti in mente. La Fiera è colma ancora oggi di zucchero e nocciole, ed è popolata di porcari fin da tempi insospettabili. La “via dei porcari”, che oggi parte da piazza Transilvania (si ok, si chiama piazza Aldo Moro da oltre vent’anni, ma il vero rivolese la chiama ancora così) e si protrae per tutto viale Colli. La scelta è ardua, perché la varietà è enorme: dal classico porchettaro centritaliano che esibisce fiero la sua testa di cinghiale fino al filoamericano hamburgherista in stile texmex, passando per tutti i gradi mitteleuropei di salsiccia e wurstel.

Quello che adoro di più della grande Fiera è la sua stratificazione. Si è adattata incredibilmente al terzo millennio, ma allo stesso tempo ha mantenuto il carattere originario di vero mercato, in cui gli espositori vengono anche da molto lontano per mostrare cose nuove e strane a vecchi e bambini: giostrai, caladarrostai, venditori di caramelle, e soprattutto imbonitori di piazza. Starei ore ad ascoltare i tizi che piazzano improbabili aggeggi per tagliare la verdura, con un microfono agganciato al petto tramite accrocchi assurdi di metallo e nastro adesivo, incuranti dei comodi archetti che si usano da almeno 30 anni. Sembrano essere intrappolati in una bolla spazio temporale che collega il futuro con il medioevo, con i cantastorie popolari, l’epoca della plastica ancora salda dentro la liquida realtà digitale, l’acciaio delle lame e l’elettricità, lo sterco di vacca e le luci al neon che illuminano i banchi scacciando gli spiriti dell’oscurità invernale che cala. Perché a Santa Caterina fa buio presto, e quando decidi che ne hai basta, è già sera e il gelo ti prende la testa.

Si torna a casa con qualche berretto di lana, guanti da bun pat, mezzo chilo di toma e magari un sacchetto di dolci da regalare, perché ormai Natale è vicino.

Ma se non sei rivolese puoi capire fino a un certo punto.

 

Masche nell’aria

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Zucche a Locana Canavese – Foto di @Zuccaviolina

Lo so, questo blog è stato trattato molto male, abbandonato più volte e più volte illuso che si sarebbe ripreso. Ma c’è anche da riconoscere che, alla fine, chi se ne importa.

Se raramente mi viene voglia di scrivere, e poi tanto la voglia passa in fretta, vorrei parlare di cose che affondano nell’immaginario collettivo quasi dimenticato, ma mai perduto del tutto, legato alle ricorrenze e alle festività, al ciclo delle stagioni e alle tradizioni ad esso legate.

Per esempio questo è il periodo dell’anno in cui si conclude tradizionalmente il lavoro nei campi, e i margari scendono dagli alpeggi con le loro mandrie. Arrivano i freddi, le giornate si accorciano, le ansie dell’inverno iniziano ad addensarsi, come questo inquinamento che ci fa respirare male, come il fumo di questi maledetti incendi. La cultura popolare ha soddisfatto l’esigenza di dare un nome e un posto a queste paure, e quindi ha fornito la chiave per superarle, alla fine, con una festa.

Ogni anno il giorno di Tutti i Santi io e Marta andiamo a trovare i suoi cugini a Locana, in valle Orco, dopo un saluto alla nonna al piccolo cimitero di montagna.

Oggi anche lì, come nei paesi anglosassoni, i bambini il 31 ottobre vanno a chiedere i dolci di casa in casa. Il giorno dopo però devono stare molto attenti, perché tutti sanno che nella notte del primo novembre passa il corso dei morti. Tutti in fila, in corteo, i defunti camminano con una fiammella accesa sulla punta del dito mignolo. Allora è meglio lasciare la tavola apparecchiata tutta la notte, con delle castagne e qualcos’altro da mangiare: passando, e rifocillandosi, i defunti lasceranno in cambio qualcosa, magari dei dolci.

La ultranovantenne cugina Maria, un paio di anni fa, ci ha raccontato altre storie terrificanti transitate dall’Ottocento montanaro alla modernità, in un sincretismo fantastico e pragmatico. Abbiamo quindi appreso che Locana era un paese di streghe, e forse qualcuna c’è ancora: quando si passa vicino alla loro dimora – perchè tutti sanno dove sono – è buona norma incrociare le dita nel gesto apotropaico nostrano (pollice pinzato fra indice e medio) per evitare il malocchio. Ad esempio c’era questa signora, chissà quanti anni fa, che per far togliere il malocchio alla sua bambina, affetta da inspiegabili febbri, è dovuta andare da una fattucchiera specialista fino a Torino – 60 km in bicicletta -. Perchè il controincantesimo funzionasse, la signora dovette tornare a casa velocemente senza voltarsi mai indietro, nonostante un’inquietante presenza alle sue spalle e incurante delle voci che la chiamavano. Il mattino dopo la figlia era guarita.

E poi ci ha detto delle masche, che si presentano sotto forma di splendidi animali bianchi: se li incontri e te li porti nella tua stalla, come successe ad un certo prete, la mattina dopo li ritrovi trasformati in bellissime donne, senza vestiti. Peccato che dopo averle viste muori.

Ma queste cose una volta erano per terra, mentre ora sono nell’aria, aveva concluso Maria. Come a dire forse che un tempo erano reali, facevano parte della vita quotidiana, le persone ci credevano davvero; invece oggi sono solo (più) storie, retaggi culturali. Ma, evanescenti, esistono ancora, e a volte ritornano.

Storia di una Fava

Fava della Focaccia della Befana

Ieri mattina, giorno dell’Epifania, mi lavo, mi vesto, metto la mano in tasca e trovo 15 euro.

Evviva, penso.

Con Marta andiamo a pranzo da sua mamma, dove ci aspettano anche la zia e la nonna. A fine pasto, com’è usanza da noi, tagliamo la Focaccia della Befana. La fava stava nella mia fetta. Evviva, penso.

Secondo la tradizione piemontese, questo significa 2 cose: 1) per me sarà un anno fortunato; 2) perchè ciò si verifichi, mi tocca pagare la focaccia. Nessun problema: costa esattamente 15 euro. Evviva, penso.

Marta, che è saggia, mi suggerisce di conservare la fava e fotografarla, per aumentarne la potenza. Non si sa mai, la posto anche su Instagram e Facebook.

Verso mezzanotte, ormai a letto, mi riguardo la mia fotina e penso: chissà se qualcun’altro, da queste parti, ha come me trovato la fava, e come me l’ha fotografata e come me, non pago, ha deciso di instagrammare la sua fortuna per condividere questo momento col mondo intero? Spinto da questo desiderio, vado a a seguire l’hashtag #fava contenuto nella didascalia della mia foto. Si apre un mondo.

Lì per lì mi dico, caspita, è pieno di compaesani che si fotografano con la fava, e io che pensavo che i Piemontesi fossero gente schiva. Allora vado ad aprire qualche foto per vederne la provenienza geografica esatta. Marta, d’altro canto, mi diceva che nel Monferrato questa usanza non c’è, e volevo verificare che fosse Torinese e delle valli. Apro a caso e leggo i commenti. Lingua strana…potrebbe essere piemontese? Non credo. Potrebbe essere Spagnolo! Forse, ma non mi quadra. Un momento, potrebbe essere Occitano…o Provenzale! Ok, penso, è Catalano.

Chi mi conosce sa che la mia familiarità con le lingue è scarsa o nulla, così seguo il simbolino della localizzazione su alcune di queste foto, e vengo effettivamente trasportato a Barcellona. Da loro il dolce si chiama Tortell de Reis.

Capisco che il colpo di fortuna (il primo di una lunga serie, quest’anno, è ovvio), sta nel fatto che #fava in italiano e catalano si scriva (e si dica?) allo stesso modo (in spagnolo: haba). E questo mi ha facilitato orrendamente le cose.

Nel frattempo un’amica che si trova a Parigi mi scrive che lei ha trovato la fava nella Galette de rois. Adesso le tocca regalarla a qualcuno.

Sempre più confuso, continuo a guardare foto catalane e francesi, in mezzo a cui ne trovo solo un paio localizzate a Torino e dintorni. Confermando per altro le mie aspettative sulla bugianenità dei compatrioti. Qualcuno aveva anche fotografato la storiella catalana stampata, in versi (sempre più difficile, signori), che spiegava mitologicamente la tradizione. Traduco con l’ausilio di Marta che nel frattempo mi ha raggiunto per dormire.

Ebbene, il Tortell catalano contiene due fave, una vera e una in ceramica colorata. Chi trova quella finta è incoronato Reis, chi trova quella vera… beh, paga la focaccia.

Seguendo l’hashtag #feve per intercettare i cugini francofoni, capisco dalle foto che da loro, della fava, rimane solo il nome. La bacheca è infatti piena di pupazzetti, che evidentemente si trovano all’interno del dolce, e chi li trova diventa rois.

Cosa ci insegna questa storia? 10 insignificanti cosette:

  1. Per me sarà un anno fortunato
  2. Esiste una bella tradizione dell’Epifania che lega Piemonte, Catalogna e Francia
  3. Mentre Francesi e Catalani hanno sincronizzato questa usanza con quelle cristiane, introducendo la figura del Re (dai Re Magi), qui ce ne siamo bellamente fottuti.
  4. L’Epifania coincide con l’inizio del Carnevale
  5. Si possono fare interessanti (piccole) scoperte etnografiche utilizzando come sola fonte Instagram e come unico strumento uno smartphone, in meno di un’ora, dal letto di casa
  6. Il Catalano somiglia al Piemontese, boya faus
  7. Probabilmente la tradizione si è diffusa dalla Francia, dove oggi ha assunto il maggior grado di astrazione (la fava è stata sostituita con un pupazzetto, ed è sostanzialmente diventata un gioco)
  8. La focaccia della Befana costa parecchio e m’ha tocat pagar. D’altronde la fortuna, nel mondo popolare, non può arrivare dal nulla. E se arriva va condivisa con la comunità, anche simbolicamente
  9. Sono già in ritardo, con un post sull’Epifania scritto il 7 gennaio
  10. Fotografate la vostra fortuna, pagatela, condividetela e taggatela col proprio nome

Buon inizio d’anno

P.S. Nel pomeriggio di ieri ho giocato a tombola e poker. La mia vincita è stata di circa 15 euro.