Tornato

Blog nuovo di zecca, template vagamente lounge, piattaforma giusta… Ebbene sì, sono tornato. E con stile.

Stanotte non voglio parlare di nulla. E’ passato più di un anno dall’ultimo post, ho fatto in tempo a correre appresso a bande, bandelle e ballerini sui balli a palchetto della val di Susa. Ho fatto in tempo pure a laurearmi. Con bandella al seguito.

Mi sono appena scaldato al tepore dell’ennesima estate-fiammifero, che si risolve giustamente in un ottobre sonnolento. Ieri ero un pianoforte-rumba in un locale di San Salvario, domani sarò vino e fisarmonica alla piola di Borgata Vittoria, non so se un giorno abiterò davvero una canzone, ma magari lo troverò un posto che sia mio.

Stanotte però non voglio parlare di niente. Magari con stile.

Ben ritrovati i vecchi amici, benvenuti i nuovi.

Dietro casa

E’ bello andare in giro.

Da qualche tempo, grazie alle mie peregrine e irrisolte ricerche di studio e ai richiami del cuore, mi sono trovato a girare sulle strade del Monferrato. Ho visto posti magnifici, colline rudi, prati a perdita d’occhio, distese gialle di fiori, vecchie cascine piene di cose (cose vere), trattori, aironi, poeti, musicisti contadini, noccioli, suoni e silenzi, colori, filosofi e domande, cappelli, odori acri, papaveri, bombardini, rane, storie, e storie e storie…

Poi qualche giorno fa mi è capitato di percorrere una piccola stfiori giallirada che passa dietro casa mia. Non ricordavo che la campagna tra Rivoli e Rosta fosse così interessante, e ci ho messo alcuni minuti a capire che quella strada era stata percorsa da me decine di volte, quando i miei zii mi portavano bambino in bicicletta all’orto. L’asfalto cede gradualmente il passo allo sterrato, e in pochi metri ci si trova in un mondo apparentemente così lontano dal centro cittadino.

Ma poi mi ricordo che la mia città, se percorsa lentamente a piedi, sa offrire scorci incredibili…e sbirciando da un cancello semiaperto scorgo un’aia in terra battuta in cui scorazzano le galline, come i limoni di Montale, in mezzo ai rumori del traffico, alle macchine, al cemento, allo stress.

E allora sorrido quando penso a chi si affanna per l’ansia di viaggiare, e viaggiare ancora, andare lontano, e cerca sé stesso in Oriente, si emoziona per i pascoli irlandesi, nuota nei mari cristallini del Pacifico, sogni mondi fantastici…

E non sa che dietro casa c’è il tesoro.

Autunno

Si vivono dolori immensi che l’uomo si porta dietro dalla notte dei tempi e da cui non potrà mai liberarsi.
La notizia della perdita di una persona cara può distruggere in un secondo secoli di filosofia, millenni di progressi tecnici e culturali, fedi religiose e non, tonnellate di letteratura.
Quando avverti che qualcuno che hai amato, che ti ha amato, che ha condiviso con te metri di spazio, sentimenti, sorrisi, parole, incazzature, sguardi, litigi, brutti momenti e gioie, non esiste più, non potrà più parlarti, né toccarti, allora capisci un sacco di cose. Che finisce, finisce tutto prima o poi.
La meraviglia dell’uomo forse sta proprio nella sua incompiutezza. Questo essere tesi verso l’infinito, questa volontà di andare sempre oltre, ancora un passo più in là, senza fermarsi, ma non poter arrivare mai. Da qui il dolore di provare la sensazione di essere niente e poter desiderare tutto, capirlo, sentirlo, scriverlo, dipingerlo, suonarlo, ma senza arrendersi mai.
 
Nonna, mi hai lasciato in eredità un pessimismo leopardianopopolare che custodirò con gelosia. Basta un soffio. Non siamo niente. Mi viene in mente quando ti parlai de La ginestra, a te che non avevi studiato, e come ti piaceva sentirmi spiegare, parlare. Tu la testa non l’hai piegata mai, sempre dritta, fino a che la lava incandescente del Vesuvio non ti ha tirato giù, e non hai fatto niente per opporti. I fiori, poi sono sempre stati la tua passione…
Una volta Fabio ha detto che non è mai passato davanti casa mia senza vederti lavorare in giardino, non ci feci troppo caso. Ora il giardino piange lacrime variopinte. La pioggia, il freddo di quel maledetto giorno di inizio autunno in cui ti abbiamo salutato tutti insieme (c’erano tutti i miei amici, ti hanno voluto tanto bene anche loro, quasi tuoi nipoti, alcuni). Anche la natura disperava con noi.
E’ passata anche questa. Te ne sei andata quasi all’improvviso, prima del tempo. Ma è andata meglio così. Tanto non potevi stare ferma, ammalata in un letto, sapendo di darci dolore, tu che hai votato la tua vita intera all’amore per i tuoi familiari, che non hai sprecato un minuto a ucciderti davanti alla TV, che hai governato questa casa con la forza della padrona e la devozione della serva.
E ora ci manchi tanto. Dal profondo del cuore, allo svegliarsi la mattina e trovare la casa vuota, dal non sentire più il tuo passo leggero o la tua voce imperiosa, dal non mangiare più i tuoi piatti al non sorseggiare il tuo caffè (ora spesso lo faccio io, è buono, sai?) dal trovarsi soli in questa casa immensa, che non è mai stata così vuota.
Spero solo che da lì non ti manchi ancora la tua Sicilia.
Papà si è messo in testa di fare la marmellata di mele cotogne. Lo sai com’è fatto, lui non molla mai, non si lascia perdere d’animo, e dice che si vuole impegnare nelle cose che facevi tu. Lasciamolo fare, magari la marmellata non verrà buona come la tua, ma lui in fondo si diverte.
Ora stiamo bene, Carolina mi sembra persino più matura, ed Elisa si dà un sacco da fare.
Mamma e zia invece non si sono ancora riprese del tutto. D’altronde quando te ne sei andata sono stato assalito da pensieri tremendi, fantasmi di bambino che tornavano, la paura di perdere i genitori, la protezione, l’amore disinteressato. Perdere la mamma deve essere terribile. Povera mamma.
So che a primavera verrai a trovarci. Ci saluterai con una rosa, fiorirai con i limoni e le buganville, e ci darai tanti consigli (ne abbiamo ancora bisogno) nel frusciare dei rami di magnolia o nel profumo bianco delle camelie.
Sapremo interrogarti nella memoria come se fossi qui, e tu ci risponderai. Sapremo ascoltarti domani come abbiamo fatto sempre.
 
Un abbraccio di quelli che ho sempre dosato con parsimonia, forse troppa, ma tu mi conoscevi bene…

Dario

Settembre – ovvero dopo le vacanze, estetica degli amori, ritorno alla realtà

E’ buon costume tornando dalle vacanze scrivere un dannato intervento sul blog. Bilancio. Non l’ho ancora fatto perché ho avuto altro da scrivere, per l’università, e poi la verità è che ho perso buona parte della mia verve blogistica.
Eh sì, oh, è così…trovarsi una ragazza per uno come me è un po’ come la sinistra che riesce ad andare al governo: si è lamentata per anni, e in fondo si era abituata a stare all’opposizione. Al governo non sa più che dire, che fare, spiazzata, la sinistra è onotologicamente, idealmente, all’opposizione…diciamoci la verità, quando và al governo non sa più che chi è. E io non so più scrivere. Ora sono felice, Marta è splendida, Marta è bella, Marta è Marta. Posso farvela conoscere, mica c’è bisogno di descriverla. E’ qui con me, mica devo evocarla. Può leggere in tranquillità queste righe (oddio…spero) senza che io debba nasconderla dietro nomignoli o allusioni. Marta, ci sei? Ti voglio bene! Non c’è bisogno di inventarmi chissacchè, posso dimostrarglielo persino dandole un bacio. Capite? Un bacio vero! Non quelle cose che si immaginano, si pensano, si sperano e al limite poi si scrivono…quelle che si fanno!
Si ragionava con Marta poco fa che ci siamo raccontati le nostre passate storie, ma non i nostri amori mai iniziati. Eh sì, perché quelli mai iniziati, a rigor di logica, non sono neanche mai finiti. E fa un po’ impressione. Poi secondo me quelli mai iniziati sono anche più belli. E’ vero, maledizione. Ma sono più belli perché in definitiva sono finti, sono amori egoistici, verso un’idea, quindi verso noi stessi. Sono più belli, ma non sono veri. E la frutta vera, anche se un po’ ammaccata è più buona di quella finta, anche se a vedersi quella finta è perfetta.
Rimango perciò un convinto fautore dell’estetica dell’amore non corrisposto, perché è oggettivamente più bello da dire, cantare, scrivere, raccontare, e sono contento di aver potuto godere (masochisticamente) di questa condizione, più volte.
Ma ora non è così.
E non riesco più a scrivere.
Blocco. Spaesamento. La sinistra. Posso mica organizzarmi le manifestazioni contro me stesso…maledizione! Dovrei prendermi una vacanza, magari in Sardegna, così da ritrovare la mia vena scriptoria.
Ah già, le vacanze…
Si possono trovare ampi spunti di interesse sulle vacanze, sul blog di Rich .
Sul mio no.
Le vacanze sono andate bene, sì. Gli amici collaudati di sempre, più la Marta, ormai insostituibile sostegno a cui arrampicare e avvolgere i miei stanchi rami di vite (spicciola metafora…la sinistra…ahhh…). Di  porto Sant’Elpdio come non citare il giorno in cui la furia degli elementi si è scatenata contro di noi: il mare si porta via spiaggia e ombrelloni, ma soprattutto spiaggia, e Richard che capitombola su rocce viscide, e l’ombrellone ricomprato e incompleto di asta sostenente, perciò utile quanto quelli che stanno ancora  navigando per  l’Adriatico, che se qualcuno li trovasse, per cortesia ce lo facesse sapere: smarriti ombrelloni, media taglia, colore di mare quando rapisce – telefona ore paste….
E come non citare le varie rubriche, e la Marta che ci intima di fare attenzione, e i pranzi tipici, con erbette tipiche, e cacioricotta tipico, e provolone avvelenato (maledetto), e pasta tipica, e olive tipiche e sgombri tipici (mmmm…) e tipico miele i nocciole  tipiche, e la tipica fuga di gas, questioni tipicamente di rispetto eccetera.
Ma potrei risultare noioso in tali lungaggini inutili.
Da lì ancora una settimana in Romagna, con la sua simpatia accogliente, la sua umidità d’agosto, le sue pinete notturne e ancora Marta che mi ha seguito qualche giorno.
Poi a casa, i concerti di ferragosto, sostituendo il tastierista della Jurassic Band, e tra una grigliata all’orto, un film con gli amici, una piadina alla nutella e una torta secca ma sincera, è un attimo che questo inutile post diventi un post di fine estate, un saldo di fine stagione, una stagione di fine soldi, un soldo di stagionato fine. Mmmm formaggio…
Settembre è sempre un mese strano, di passaggio, un mese importante, periodo di decisioni e indecisioni, l’uva si vendemmia, ed è solo un primo passo a che diventi buon vino, ma non ci và niente che è già aceto.
Finisce l’estate, ci si proietta al nuovo anno, e io stamattina ero già cazzeggiante sui gradini di Palazzo Nuovo, dopo aver consegnato una tesina per un esame, la scusa per rimandare questo intervento, quel famoso “altro da scrivere per l’università”.
Chiudere cerchi, aprirne altri, settembre è anche questo.
 
(Capire ogni anno meglio cosa intendeva Guccini per "questa domenica in settembre…", passare inesorabile del tempo, percepire l’allontanarsi dalla gioventù spensierata, pensare alle responsabilità del ritrovarsi adulti, capire che niente è per sempre, che non potrò mai sapere come sarebbe andata se avessi preso un’altra strada – magari un altro me in un’altra dimensione ha fatto quello che io non ho fatto – capire che di sicuro un lavoro me lo troverò, ma non è detto che mi paghino per farlo, eccetera…).
 

Caro Blog – ovvero esplosioni dadaiste sul finire di un’epoca

Il mio viso si intontiva davanti al tuo parlare difficile,
c’era da indossare subito una camicia hawaiana […]
Sì, tu parlavi difficile come fa l’Europa quando piove
e si rintana a dipingere le isole del sogno
P. Conte, Blue Haway 
 
 
Caro Blog,
                   ti sto trascurando un sacco in questi ultimi periodi, lo so.
Scusami, vengo a trovarti tutti i giorni, e ti vedo triste, abbandonato, nessuno passa più nemmeno a salutarti.
Ho pensato che avrei potuto scriverti, nel senso più transitivo del termine, ma niente. Pare che le mie parole siano come bloccate in una grande confusione interiore, come nell’occhio di un ciclone, o nell’occhio di un ciclope, o nel clone di un ciclomotore, o nel ciclo di un colpo d’occhio, o nel cocchio di un plico coglione.
E poi a volte escono a caso.
A volte, come un’esplosione Dada-ista.
Ma caro Blog, non ho idee, né concetti in cui organizzarle.
Ti dissi che non mi succedeva niente di interessante.
Beh, non è vero. Qualcosa di interessante capita. Il fatto è che stavolta succede davvero.
Davvero, e questo mi spiazza non poco.
Significa che le parole non sono più il fatto, ma il fatto è vero, e le parole potrebbero solo più descriverlo. E descrivere non mi piace, perché è superfluo.
Scusami, caro Blog.
È un gran casino, qua fuori, e soprattutto qua dentro.
Il mio personaggio sta crollando sotto gradevoli colpi di realtà, non posso più permettermi di essere triste a piacimento, e devo ricalibrare i cannoni dell’autoironia, e mettere benzina nella macchina togliendola dai sogni, e far sospirare fisamoniche togliendo aria dai polmoni, e cambiare stile di pensiero, e inventare scuse e case, imbarcare sulle spalle altri 10 chili di musica rossa per sentirmi più leggero, e salire dal sesto piano immaginario fino al quarto, appartamento apparentemente reale, ed elencare elenchi slegati di parole, e parole e parole, per scoprirne la forza proprio quando non ho avuto bisogno di usarle, e far crollare in una sola notte 4 anni e 600 lettere d’amore, come se nulla fosse successo, e infatti nulla era successo, ma solo eccesso, come se prima tutto fosse stato il dire, e dopo 8 rampe di mare improvvisamente il fare, appoggiato forte a un piano, su e giù per scalinate minori armoniche e terze maggiori, e infine una stanza verde, per sentirsi finalmente adulti, e quindi molto più giovani, per scoprire di essere una forzatura di me stesso proprio quando mi sono rilassato in una sincerità (s)concertante.
 
Caro Blog, sono successe un sacco di cose strane. Tipo che io non sono più quello che scriveva qui.
E’ un casino. Come facciamo?
Mah…buonanotte. Tutto questo cambiare, questo viaggio dal diverso all’uguale, da me stesso alla mia vita, è spossante.
Un colpo di sonno e rischio di svegliarmi contro un muro.
 
Dario
 
P.S. Ti faccio uno squillo quando arrivo a casa…
 
Bossa nova a colazione, mi gira in testa una canzone,
mi ricorda il tuo sapore in un turbine di percussioni
Anonimo rivolese, Bossa Nova

Un piccolissimo omaggio (a Piero Welby)

Se la vita è un’attesa invernale di ciglia
che è tempo ormai che si stacchi la foglia
per trovare una pace di terra
invece che decomporsi in un letto di colla
non scordarti più
Se la vita è un pensiero non detto non fatto
Uscito dagli occhi di scatto
che non puoi sentirlo, giocarlo, gridarlo
ma solo guardarlo, desiderio infinito,
coraggio di Tantalo, contro semidei cattivi.
Non scordarti più
Se la vita è una lenta agonia di divieti
Che ti ammazza per gioco
In un’assurda carambola di rimbalzi il caso
Ti ha scelto e toccato
Se la vita ti ha preso e gettato
In un’anteprima di inferno
Con la sola speranza negli occhi
Che non durasse in eterno
Se la vita è due tubi infilati nei buchi
Di un corpo squarciato, finto, innaturale
E un’anima inchiodata a un letto di spine
Che non la fanno volare, che vorrebbe volare
Non scordarti più
Se la vita è un computer che ti ricuce la voce
E la restituisce congelata, stoccafissi di parole,
La radio riflette su un’asfissia di pareti canzoni d’amore
E non le puoi più cantare,
solo immaginare o ricordare
Che la vita quella vera te la ricordi
Era passeggiare per mano a Mina
Per le strade di Roma, o dipingere
O fare l’amore, o andare a caccia con tuo padre
Di uccelli e cinghiali

E adesso sventolano bandiere in nome di Dio,
Signore perché non li licenzi?
cercati funzionari più sinceri,
questi non sanno cos’è la vita
e si proclamano i suoi difensori,
ma non partecipano ai funerali

 
possa la sua anima volare libera
come volava il suo pensiero
come la vita che nascondeva negli occhi
come la speranza che è il suo regalo per tutti
Signore già una volta l’hai abbandonato
Con il tuo dono avariato
E quaggiù ha sofferto davvero,
Per favore non scordarti più di Piero.

 

Resuscitando – ovvero Grandi successi e Poesie coi Controcazzi

Piano piano ci si riprende.

Insomma, quante volte vi sarà capitato di essere lasciati da una donna e poi vi siete ripresi…

A me una.

E in effetti mi sono ripreso.

Sono passati 3 anni.

Ma questa è un’altra storia.

Io intendevo che sto resuscitando dalla fase post mortem dei Poeti Sconfitti, definitivamente sconfitti. Cioè, alla fine, vivo bene anche senza di loro. Senza avervi qui non è che ci si senta liberi, ma un po’ sì. Adesso posso uscire la domenica sera con tutte le Ricce del Giovedì che mi pare.

 

Proprio oggi pensavo, passando nella biblioteca del DAMS al secondo piano di Palazzo Nuovo, corridoio stretto, ma non tanto quanto quello del sesto piano, almeno nella mia percezione espressionista delle scenografie che si perde in inutili divagazioni postmoderne, pensavo che mi manca un po’ il periodo della Riccia del Giovedì. Periodo di grandi speranze, di lavori in corso, la tesi che procedeva bene, e che mi regalava nell’attesa un senso di soddisfazione raro da queste parti. E lei, che mi aspettava lì nel corridoio (era il contrario, ma mi piace dirla così), che chissà che non sia la volta buona, o semplicemente un modo per distrarmi dalle sconfitte musicali e dalle ferite delle guerre in Terra d’Amore contro i Principi di Cioccolata.

Chissà che fine ha fatto, la Riccia…e la lettera che le portai, ancora non so con che coraggio, e che cosa poi ha pensato e perchè non me lo disse mai. E fu l’ultima volta che la vidi.

Il mio blog tra poco compie un anno di attività, e l’altro ieri ha superato le 5000 pagine aperte dai molti visitatori, e chissà quanti hanno letto quella storia.

Ma tutto questo ‘a Riccia non lo sa.

 

Ora sono impegnato a scrivere la sceneggiatura per il videoclip di una delle mie canzoni meglio riuscite, più cantate e più apprezzate, Canzone (quasi) facile (come la mia autoradio). Sapete? Sono il miglior cantautore della zona. Dove per zona intendo il circonDario. Cioè via Marzabotto, via Asmara e tutta via Belfiore. Penso di potermi spingere fino alle case popolari di via Pasubio…

E ieri ho pure iniziato a dare lezioni di fisarmonica ad una ragazza! Ho studiato un metodo per fisa, questa settimana…non so se lei imparerà qualcosa, ma io diventerò bravissimo!

E mercoledì si inizia il campionato di pallavolo..ma che bello, sono pronto a perdere tutti i set che mi sarà concesso infettare, quando sarà necessario entrerò a dissolevere la situazione…che bello!

Così per coronare questo mio grande successo artistico in più campi, entrando così a pieno titolo nel mondo del cinema, che effettivamente mi compete in quanto laureato in Storia del cinema italiano, vorrei fotografare questo momento con una poesia che ho scritto oggi, passando nella biblioteca Solari al piano seminterrato di Palazzo Nuovo, mentre distraevo dallo studio il fedele Gioino, flautista letterato, attualmente in pausa di riflessione dall’esperienza dei Poeti Sconfitti.

Perché anche io, oltre ad essere Sconfitto, sono anche un Poeta coi controcazzi.

 

 

Poesia n.1 (e 2 varianti sul tema)

Sento il sole che mi bussa alla finestra

Sento il vento che mi bussa alla porta

Sento il mare che mi suona alla porta

Pure lui

 

Ma che cazzo, oggi

non si può stare tranquilli un attimo…

 

Prima Variante

Sento il sole che mi bussa alla finestra

Sento il vento che mi bussa alla porta

Sento il mare che mi suona alla porta

Pure lui

 

Ma che, adesso si travestono pure,

I Testimoni di Geova?

 

Seconda Variante

Sento il sole che mi bussa alla finestra

Sento il vento che mi bussa alla porta

Sento il mare che mi suona alla porta

Pure lui

 

O stanotte mi hanno trasferito a Porto Torres

A mia insaputa

Oppure è il caso di smettere di bere.

 

By Dario De Seppo

 

(nessun riferimento a cose o persone di cui si parla sul blog di Barko è puramente casuale)

Da un tavolino del Cafè Cuba Libre

  Le ultime due pagine dei miei appunti "di viaggio", oppurtunamente sistemate.

                                 

                                                                           Tortoreto Lido,5 agosto ‘06

 

 – Disturbo?

 – Assolutamente…anzi…

 Così ho passato quattro tardopomeriggi a strimpellare al Cafè Cuba Libre, uno dei bar interni al campeggio dove stavo con la mia famiglia. Tanto la cameriera non la disturbavo…anzi, l’altra mi ha perfino chiesto di cantare per loro, un giorno.

Ma a me piaceva quella timida.

Aria pulita di chi non sa di essere carina, e frasi di circostanza di chi ha voglia di parlare, e sorriso innocente da occhi bassi. Occhi di un colore ancora non decifrato, fra il grigio e il verde, a seconda di quanto sole vi era dentro, grandi, a farsi spazio su un viso scuro d’estate, a volte sorpresi a spiare da dietro i fili neri sfuggiti alla comodità di un elastico.

Così qualche ora spalmata in qualche giorno ho passato lì, al Cafè Cuba Libre, commentando con la chitarra il passaggio dei turisti e i movimenti di lei. Qualche parola per raccontarsi velocemente, mentre spazzava il dehor esterno…il vento, le foglie, io che non andavo in spiaggia per il maltempo, improvvisazione del cielo che ho colto come un dono, recandomi invece al Caffè, solitario a suonare al solito tavolino. Dopo un po’ ritiravo tutto e facevo per alzarmi.

 

         Beato te che ora vai a casa a mangiare…io sono bloccata in questo posto maledetto. C’è gente che sta un mese chiusa qui dentro senza mai uscire…come si fa? Fuori c’è il mondo!…Scusa ti sto dando una prospettiva diversa…

         No, hai ragione. Beh io sto qui una settimana soltanto…mi riposo, faccio vita da spiaggia…

 

Avrei voluto spiegarle tutto, ma un po’ mi vergognavo. E allora in mente tutti i miei discorsi sui viaggi, e le mie riserve, le mie abitudini, la mia fantasia, i miei spazi mentali, il mio modo di viaggiare lontano guardando una fetta di mare o un foglio di carta o un tovagliolo o una ragazza sconosciuta che mette a posto i tavoli di un bar che odia scambiando due chiacchiere con un turista un po’ meno qualsiasi, forse per lo strano corredo che si porta appresso. E tanto lei, che vede il mare tutte le mattine aprendo la finestra di casa, come avrebbe potuto capire il mio bisogno inappagato di calmi infiniti salmastri scritto nella mia indole genetica?

Così sono ancora qui, sul tavolino al sole.

Oggi è l’ultimo giorno. La saluterò per sempre con un ciao che vale un addio, e si dimenticherà di me domani, come di tutti i visitatori che nei suoi due mesi di lavoro passano anonimi nel bar.

Sono qui, sul tavolino, con l’ultimo sole che mi prega “non te ne andare, io tutte le mattine ritorno”.

Io domattina parto.

E dico addio a questo angolo di mondo, falso come un bel sogno.

  

 

                               Rivoli, 6 agosto ‘06

 

Rieccomi a casa. E’ sera e sono avvolto da un sottile velo di malinconia.

Come mi ricordava Boccadoro qualche giorno fa, l’arte nasce forse dalla paura della morte. Io aggiungerei dalla paura di essere dimenticati.

Forse per questo ieri pomeriggio, dopo la preghiera dell’ultimo sole, mi sono spostato all’ombra, al solito tavolino del Cuba Libre, ho suonato due canzoni, ho preso il cd che avevo nello zaino, ho scritto la mia mail e il mio numero, ho posato la chitarra, ho iniziato a ritirare il Millenote, Rimbaud, questi fogli e questa penna.

Come ogni volta quando mi vedeva mettere via le cose, la ragazza è uscita a spazzare il dehor.

 

         Vai a casa a mangiare?

         E’ un po’ presto, ma fa freddo.

         …Scusa, qui non ho la cognizione del tempo.

[Segue una breve discussione sulla mia performance canora della sera precedente]

         Allora io ti saluto,domani parto.

         Di già?

         ———

         E’ sempre triste quando finiscono le vacanze. E’ una parentesi a sé.

[E pensavo a tutte le persone che ho conosciuto nelle mie estati e che sono state perdute fra le pieghe infinite del mondo]

-………

-……..

[Sorrisi, silenzio, una luce negli occhi di lei che raccoglievano gli ultimi secondi di quel sole che il giorno dopo, al contrario di me, sarebbe tornato. Luce breve, per i pochi istanti che sia durato questo momento di sospensione strana, e che belli i tuoi occhi, Donatella, così mediterranei – tu non puoi capire, che vivi al mare, noi gente di città fredde e fumose che spendiamo soldi per passare pochi giorni nel posto che tu sogni di lasciare un giorno – che belli. Era tempo che non riconoscevo in una donna quello sguardo rivolto a me, pieno di qualcosa che non saprei definire, e non mi importa se mi sono sbagliato di nuovo, tanto nessuno me lo potrà provare. Preferisco rimanere nel dubbio, che è un vizio che non mi toglierò mai.]

 

         Allora…ciao…io vado, ti saluto…ah, volevo darti una cosa…

[Tiro fuori dallo zaino il cd con le mie canzoni che avevo preparato per lei, anche se non lo sapevo, quando ero ancora qui a casa. Le spiego brevemente di che si tratta, e lei mi ringrazia con sincerità, con l’atteggiamento che avrei desiderato mi rivolgesse la Riccia del Giovedì alla consegna della lettera.]

         Grazie…è un pensiero bellissimo…

         Ne porto sempre uno con me, e ogni tanto lo regalo a qualcuno…a ‘sto giro è toccato a te.

 

La sera poi sono ripassato ancora, le ho chiesto a che ora avrebbe finito, ma lei quando staccava sarebbe andata subito via, povera, dopo otto ore di lavoro.

Così a mezzanotte l’ho salutata per sempre.

L’ultima immagine che ho raccolto di lei, uscendo dal Caffè, la porterò con me per un pò: sistemava il dehor, col suo fare così discreto che nessuno noterebbe la sua presenza, mentre gettava i rimasugli nel cestino, come i ricordi dei mille volti passati dai quei tavolini. Così l’ho vista per l’ultima volta, esattamente come la prima. Lei metteva a posto i tavoli e io, da ultimo cliente rimasto e pure senza consumazione, le avevo chiesto:

         Disturbo?

         Assolutamente …anzi…

Traiettorie di fuga – un giallo avvincente

Come ci fu commissionato, io e il Valoroso chitarrista Panetta, questa notte si è scritto un pezzo contenente le parole Comignoli, Traiettorie, Remare, Biancheria e Costituzione. L’occasione è la cacciata dai Portici di Piazza Castello, dove  ci si era rifugiati dalla pioggia, in una sera di ritrovo disorganizzato, strumenti alla mano. Gioino vi saprà spiegare.

La musica delira. Strano.

 

Traiettorie di fuga – un giallo avvincente

 

La notte ci aveva rapito

fra cento tamburi battenti

e i comignoli ci spiavano suonare

come giostre armate di mantici

e cacofonie.

A seguire traiettorie di fuga,

un giallo avvincente,

remando in rifugi agognati,

costretti da un cielo esondante;

giunsero i tutori del gregge,

trovando solo pecore nere.

Con una mano sul fianco

e nell’altra la Costituzione,

un manganello c’intimò

l’abbandono dell’obiettivo

sensibile.

E noi, stupiti come biancheria

stesa alla pioggia, ci allontanammo

dai portici vuoti di Piazza Castello,

per tornare dentro alle custodie.

Chiuse.

Clack.

Ziiiiiip.

Taclack.

Intermezzo: lune batacchio e congelatori islandesi

La nottata al Bierkeller, seduta tra le panche arrotolate in un freddo poco primaverile, volgeva verso un perchè non riesco a scrivere oltre quel tipo di cose.

Io e il mio illustre chitarristacompagno di filosofie da pub, il valoroso A.P., si è iniziata una gara di metafore.

Persa. Pulcetta, con la sua luna-hula hop poco hip-pop, miseramente ci ha stracciato.

Così, soli, si è partiti a incolonnare visioni, una tu e una io, come si faceva tanti anni fa, con i sonetti a 4 mani (ricordi?).

Il risultato è qui, abbozzato, ed è già stato cantato.

Se vorrà espandersi, Tir Na NOg, o come vi chiamerete, o chi altri voglia, potrà.

 

 

 

La luna è un batacchio.

Deglutito dall’esofago della

strada viaggio verso il non mi và.

La terra è febbre

che me la sento addosso e i tuoi

palliativi sono congelatori islandesi, che

ci metto bottiglie vuote.

Sterzo verso il passavo di qua,

ma le luci sono muti gradini

di fumo, che tanto lo avresti già intuito.

Tu, viola vitigno, vanto del cigno,

riflesso ondulato di colline a terrazza,

tu, che ti devo un caffè sussurrato,

sai dove voglio arrivare?

 

 

(Panets & DeSeppo)