La grande Fiera di Santa Caterina (for non rivuleis dummies)

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Torroni e altre meraviglie. Foto di @Zuccaviolina

Se non sei rivolese puoi capire fino a un certo punto. Perché alla Fiera di Santa Caterina ci sarai pure venuto, se abiti a Collegno, o a Torino, ma porca miseria se stai a Rivoli Santa Caterina è praticamente la festa più importante dell’anno. Tutto il centro, da Corso Susa fino a strada Nuova Tetti, dal cimitero fino a via Piol la città è totalmente invasa da più di mille banchi di mercato di ogni genere: alimentari, abbigliamento, piante, cineserie e ciapapùer.

Il traffico è congestionato: la città è bloccata, ma il rivolese lo sa, e o esce a piedi, o accetta la sfida di passare decine di minuti in coda su corso Susa per raggiungere lo spiazzo di corso Torino, adibito a parcheggio, e che tanto sarà pieno.

Stando ai documenti d’archivio, avremmo notizia della fiera dai tempi del Conte Verde, anno del signore 1365. Certo è che a memoria di rivolese la Fiera è sempre esistita e nel suo cuore sempre esisterà. Indubbiamente coincide con la chiusura dei lavori agricoli, e infatti la sua vera natura è legata alla vendita degli ultimi prodotti della terra prima della grande pausa invernale, all’esposizione del bestiame e dei mezzi agricoli. Ed è l’ultima occasione pubblica di incontrare la comunità prima delle festività natalizie. Insomma, noi il Black Monday ce l’abbiamo da 7 secoli.

Il rivolese doc, infatti, non va alla fiera di domenica – turistica regressione recente per torinesi annoiati – ma ci va il lunedì. Ogni santo quarto lunedì di novembre che dio manda in terra da almeno 650 anni, il Rivolese si alza presto e va alla Fiera.

Quando ero bambino chiudevano le scuole, poi hanno ripristinato la ufficiale festa del Santo patrono che è Santa Maria della Stella ma che, parliamoci chiaro – e la madonna in questione non si offenda – ma non c’è storia. Tanto che poi i rivolesi a scuola a Santa Caterina non ci vanno lo stesso, un po’ perché raggiungere le scuole è un’impresa paragonabile alla conquista del K2, un po’ perché oh, scherziamo? C’è la Fiera. Comunque da bambino mio padre mi portava a vedere le mucche e i trattori. Cosa può esserci di meglio per un bambino di 8 anni che grossi animali e mezzi agricoli con ruote gigantesche? Le giostre naturalmente, ma anche le tonnellate di dolci di ogni tipo, torroni, mandorle caramellate, e pistacchi, lupini e qualsiasi altra leccornia vintage che possa venirti in mente. La Fiera è colma ancora oggi di zucchero e nocciole, ed è popolata di porcari fin da tempi insospettabili. La “via dei porcari”, che oggi parte da piazza Transilvania (si ok, si chiama piazza Aldo Moro da oltre vent’anni, ma il vero rivolese la chiama ancora così) e si protrae per tutto viale Colli. La scelta è ardua, perché la varietà è enorme: dal classico porchettaro centritaliano che esibisce fiero la sua testa di cinghiale fino al filoamericano hamburgherista in stile texmex, passando per tutti i gradi mitteleuropei di salsiccia e wurstel.

Quello che adoro di più della grande Fiera è la sua stratificazione. Si è adattata incredibilmente al terzo millennio, ma allo stesso tempo ha mantenuto il carattere originario di vero mercato, in cui gli espositori vengono anche da molto lontano per mostrare cose nuove e strane a vecchi e bambini: giostrai, caladarrostai, venditori di caramelle, e soprattutto imbonitori di piazza. Starei ore ad ascoltare i tizi che piazzano improbabili aggeggi per tagliare la verdura, con un microfono agganciato al petto tramite accrocchi assurdi di metallo e nastro adesivo, incuranti dei comodi archetti che si usano da almeno 30 anni. Sembrano essere intrappolati in una bolla spazio temporale che collega il futuro con il medioevo, con i cantastorie popolari, l’epoca della plastica ancora salda dentro la liquida realtà digitale, l’acciaio delle lame e l’elettricità, lo sterco di vacca e le luci al neon che illuminano i banchi scacciando gli spiriti dell’oscurità invernale che cala. Perché a Santa Caterina fa buio presto, e quando decidi che ne hai basta, è già sera e il gelo ti prende la testa.

Si torna a casa con qualche berretto di lana, guanti da bun pat, mezzo chilo di toma e magari un sacchetto di dolci da regalare, perché ormai Natale è vicino.

Ma se non sei rivolese puoi capire fino a un certo punto.

 

Masche nell’aria

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Zucche a Locana Canavese – Foto di @Zuccaviolina

Lo so, questo blog è stato trattato molto male, abbandonato più volte e più volte illuso che si sarebbe ripreso. Ma c’è anche da riconoscere che, alla fine, chi se ne importa.

Se raramente mi viene voglia di scrivere, e poi tanto la voglia passa in fretta, vorrei parlare di cose che affondano nell’immaginario collettivo quasi dimenticato, ma mai perduto del tutto, legato alle ricorrenze e alle festività, al ciclo delle stagioni e alle tradizioni ad esso legate.

Per esempio questo è il periodo dell’anno in cui si conclude tradizionalmente il lavoro nei campi, e i margari scendono dagli alpeggi con le loro mandrie. Arrivano i freddi, le giornate si accorciano, le ansie dell’inverno iniziano ad addensarsi, come questo inquinamento che ci fa respirare male, come il fumo di questi maledetti incendi. La cultura popolare ha soddisfatto l’esigenza di dare un nome e un posto a queste paure, e quindi ha fornito la chiave per superarle, alla fine, con una festa.

Ogni anno il giorno di Tutti i Santi io e Marta andiamo a trovare i suoi cugini a Locana, in valle Orco, dopo un saluto alla nonna al piccolo cimitero di montagna.

Oggi anche lì, come nei paesi anglosassoni, i bambini il 31 ottobre vanno a chiedere i dolci di casa in casa. Il giorno dopo però devono stare molto attenti, perché tutti sanno che nella notte del primo novembre passa il corso dei morti. Tutti in fila, in corteo, i defunti camminano con una fiammella accesa sulla punta del dito mignolo. Allora è meglio lasciare la tavola apparecchiata tutta la notte, con delle castagne e qualcos’altro da mangiare: passando, e rifocillandosi, i defunti lasceranno in cambio qualcosa, magari dei dolci.

La ultranovantenne cugina Maria, un paio di anni fa, ci ha raccontato altre storie terrificanti transitate dall’Ottocento montanaro alla modernità, in un sincretismo fantastico e pragmatico. Abbiamo quindi appreso che Locana era un paese di streghe, e forse qualcuna c’è ancora: quando si passa vicino alla loro dimora – perchè tutti sanno dove sono – è buona norma incrociare le dita nel gesto apotropaico nostrano (pollice pinzato fra indice e medio) per evitare il malocchio. Ad esempio c’era questa signora, chissà quanti anni fa, che per far togliere il malocchio alla sua bambina, affetta da inspiegabili febbri, è dovuta andare da una fattucchiera specialista fino a Torino – 60 km in bicicletta -. Perchè il controincantesimo funzionasse, la signora dovette tornare a casa velocemente senza voltarsi mai indietro, nonostante un’inquietante presenza alle sue spalle e incurante delle voci che la chiamavano. Il mattino dopo la figlia era guarita.

E poi ci ha detto delle masche, che si presentano sotto forma di splendidi animali bianchi: se li incontri e te li porti nella tua stalla, come successe ad un certo prete, la mattina dopo li ritrovi trasformati in bellissime donne, senza vestiti. Peccato che dopo averle viste muori.

Ma queste cose una volta erano per terra, mentre ora sono nell’aria, aveva concluso Maria. Come a dire forse che un tempo erano reali, facevano parte della vita quotidiana, le persone ci credevano davvero; invece oggi sono solo (più) storie, retaggi culturali. Ma, evanescenti, esistono ancora, e a volte ritornano.

La neve, generosa, copre i passi sbagliati

Una sottile coltre di neve copre il tetto della casa dove sono cresciuto, mentre sto scrivendo. D’altronde è anche giusto: domenica scorsa l’Orso di Urbiano è uscito, ha impazzato per la borgata di Mompantero, ha ballato con le ragazze e alla fine si è calmato (sì, ha ballato anche con Marta, guardare per credere). Ma era una bellissima giornata di sole, cielo terso e vento gelido. Quindi, secondo i detti tradizionali, ci toccano ancora almeno 40 giorni di inverno profondo.

Linda &; the Grennman a TorinoEd è proprio da qui, da Rivoli, che quest’anno è iniziato con una novità. Con un gilet, un cappello, la fisarmonica di Marta e il vecchio bouzouki nero – che giaceva inutilizzato dai tempi dei DdSAcousticBand – sono corso in aiuto di chi, oggettivamente, non ne aveva bisogno. Sto parlando del neonato duo Linda & The Greenman, ovvero Linda Messerklinger – attrice, modella, eh sì, pure cantante e songwriter – e Gigi Giancursi, autore e chitarrista ex Perturbazione, con cui già ebbi modo di collaborare in passato. La limpida voce di Linda e il morbido fingerpicking acustico di Gigi descrivono atmosfere delicate e oniriche. Il sottoscritto compare di tanto in tanto per condire il tutto con importanti dosi di sberluccicoso realismo sonoro.

Ma le parole sono parole. Credo che il risultato sia piuttosto equilibrato, e al di là di tutto, come si diceva con il buon Gigi, se le canzoni sono belle, il resto è contorno. E le canzoni, secondo me, sono belle.

Qui sotto vi beccate Una stagione in silenzio – primo inedito – dal vivo, con me che alla fine mi faccio un giretto fuori pista.

Se preferite, il singolo in versione originale lo sentite qua, o se addirittura intendete sostenere questi ragazzi, potete anche acquistarlo in digitale a prezzi modici.

Abbiamo fatto insieme già qualche data, compreso un miniminiminitour Vigevano/Novara, con tanto di letti scroccati all’ultimo minuto, nebbia come se non ci fosse una prossima rotonda, liquorosi aperitivi in barsport fermi agli anni ’60, chiacchiere con amici occasionali, capotasti sbagliati, cene a sbafo, grande calore in posti che non avresti detto, campionato di Tetris hardlevel (5 in una Panda con strumenti)… ma si sa, i suonatori ‘ste cose le fanno, se le raccontano, ci ridono sopra, ci ricamano. Il concerto è, in definitiva, un’apostrofo sonoro tra un viaggio in macchina e un riavvolgere i cavi. La musica consiste negli uomini e nelle donne che la fanno, la ascoltano, la ballano; non c’è di niente di trascendentale in questo. E’ vita pura. Alla fine è il contorno quello che amiamo, che non sopportiamo più, che ci appassiona da matti, che ci fa bestemmiare e minacciare che basta, questa è l’ultima volta che prendo una data, che parto, che scrivo una canzone. E a me, che musicista non sono, ogni tanto piace fare una passeggiata in questo luccicante, infido, grandioso luna park, tanto assurdo quanto, in fondo, normale.

Insomma, restate in ascolto per i prossimi giri.

P.S. Ho ristrutturato un pò questo blog, il cui stato è comunque di eterno semiabbandono. A sinistra trovate nuove pagine, come Attività live, Produzioni musicali e Pubblicazioni. Giusto per dare la falsa impressione che io sia una persona seria.

La mia tappa di viaggio nella danza popolare in Italia

Sono orgoglioso di comunicare che è finalmente uscito un libro molto importante, a cui ho dato un piccolo contributo: Viaggio nella danza popolare in Italia. Itinerari di ricerca del Centro Nord, a cura di Noretta Nori (Palombi editore).

Il primo volume è stato pubblicato ormai due anni fa con un altro editore – ne avevo parlato, perchè ero intervenuto alla presentazione\convegno di Monghidoro – e finalmente, dopo vari problemi e vicissitudini, si è andati avanti. Il terzo volume, sul Centro Sud, è in preparazione.

Questo libro è una incredibile raccolta di testimonianze e studi approfonditi sul ballo popolare nel Nord Italia, che ha visto la partecipazione di molti ricercatori e appassionati, coordinati da una delle massime esperte – posso dirlo? – mondiali sull’argomento, Placida “Dina” Staro. Il libro è ricchissimo di tematiche, e si configura appunto come un viaggio – dalle Alpi agli Appennini settentrionali – focalizzando contesti etnografici, stili di danza, culture coreutico-musicali. Il tutto corredato da un ricco e bellissimo apparato fotografico, nonchè da un dvd contenente un gran numero di contributi audiovisivi girati e montati dai vari autori.

Erano decenni che si aspettava di realizzare un lavoro del genere. E sono fiero di aver contribuito, nel mio piccolo, a diffondere qualche notizia sul ballo a palchetto, la balera viaggiante tradizionale per il ballo liscio in Piemonte. Quella rotonda col tendone, per intenderci. Il saggio, dal titolo Piemonte: il ballo a palchetto, è diviso in due parti – la seconda è stata scritta da Domenico Torta – e parla anche di squadre da ballo, quintèt di fiati e repertori di liscio vecchio diffusi dalle bande musicali.IMG_20140723_135337

Il taglio dell’opera e la sua vastità rendono questo lavoro un documento importantissimo, una fotografia fedele della situazione attuale del ballo popolare in Italia, con punte di approfondimento particolarmente curate, figlie di ricerche etnografiche pluridecennali sui più importanti repertori di danza (Carnevali alpini, Valli Occitane, Quattro Province, Appennino Emiliano e Romagnolo, Saltarello marchigiano ecc…)

Un pò mi spiace per le assenze illustri della mia regione, in particolare le danze armate. D’altronde tutto non poteva starci, e per queste specifiche situazioni esiste comunque una bibliografia di riferimento (ad es. Le spade della vita e della morte), oltre alle importanti considerazioni generali apparse sul primo volume dell’opera Viaggio della danza popolare in Italia .1 Guida allo studio della funzione e della forma.

Sono molto felice di avere avuto l’opportunità e la fortuna di partecipare a questa impresa – ricordo quando Dina mi scrisse per propormi questa cosa, ricordandosi di me non so come –. Vorrei ringraziare tutti, da Domenico Torta, grande maestro di vita e di musica, che ha condiviso con me lo spazio del saggio, a Noretta che mi ha accettato a scatola chiusa, a Dina, ovviamente, per avermi insegnato così tanto in così poco tempo, a Marta, che mi sostiene sempre, agli amici di Caprie e Villar Focchiardo, grandi protagonisti – ormai da 5 anni – di questa piccola avventura.

Bilancio musicale di metà anno

Ma sì, facciamolo…

Tra le novità di questo periodo c’è senza dubbio il mirabolante ingresso nella “famiglia” Provincia Italiana Group. La storica band torinese, che propone cover del cantautore Vinicio Capossela contornate da canzoni popolari del Sud, mi ha accolto con grande calore. Con loro ho già fatto tre date, e in programma c’è la chiusura di Sweet Home Barolo, nella splendida cornice delle Langhe.

Finalmente, dopo quasi 4 anni, ho ancora condiviso il palco con i mitici Perturbazione. Reduci del grande successo di Sanremo – il loro pezzo, L’unica, è stato il più programmato dalle radio italiane – hanno partecipato ad un omaggio a Gipo Farassino, l’11 giugno, al Teatro Carignano, per la Fondazione Caterina Farassino.Dario Mimmo e i Perturbazione

Un grande onore per me accompagnarli con la fisa, su La mia città, di Gipo, e Del nostro tempo rubato (forse uno dei loro pezzi più belli). Che emozione, ragazzi, suonare sul palco del Carignano, dopo aver vissuto qualche breve momento di dolcevita torinese all’ora dell’aperitivo.

Soddisfazioni anche per il Corso di Fisarmonica del giovedì che si è concluso al Circolo No.à di Corso Regina, con una divertente cena allietata dalla costante presenza dei mantici. Qui un frammento della serata:

All’inizio dell’anno è anche uscito un disco a cui ho collaborato. Si tratta di Brutti Sogni intelligenti, del cantautore torinese Fra Diavolo. Un bel lavoro registrato in presa diretta in una sola caldissima giornata della scorsa estate, a cui ho contribuito per due pezzi: Della cricca – una beguine come piacciono a me – e Torba – una tango maledetto. Precedentemente avevo già collaborato con Fra Diavolo in Plotoni di forchette.

Intanto si attende qualche data per i Tavernacustica (sicuramente il 10 luglio siamo a Bruino), che zitti zitti, al di là dei cambi di nome, camminano lentamente verso il decennale… vi stupiremo presto con un repertorio rinnovatissimo e patinatissimo.

Per sapere dove sarò, guardate il calendario

Storia di una Fava

Fava della Focaccia della Befana

Ieri mattina, giorno dell’Epifania, mi lavo, mi vesto, metto la mano in tasca e trovo 15 euro.

Evviva, penso.

Con Marta andiamo a pranzo da sua mamma, dove ci aspettano anche la zia e la nonna. A fine pasto, com’è usanza da noi, tagliamo la Focaccia della Befana. La fava stava nella mia fetta. Evviva, penso.

Secondo la tradizione piemontese, questo significa 2 cose: 1) per me sarà un anno fortunato; 2) perchè ciò si verifichi, mi tocca pagare la focaccia. Nessun problema: costa esattamente 15 euro. Evviva, penso.

Marta, che è saggia, mi suggerisce di conservare la fava e fotografarla, per aumentarne la potenza. Non si sa mai, la posto anche su Instagram e Facebook.

Verso mezzanotte, ormai a letto, mi riguardo la mia fotina e penso: chissà se qualcun’altro, da queste parti, ha come me trovato la fava, e come me l’ha fotografata e come me, non pago, ha deciso di instagrammare la sua fortuna per condividere questo momento col mondo intero? Spinto da questo desiderio, vado a a seguire l’hashtag #fava contenuto nella didascalia della mia foto. Si apre un mondo.

Lì per lì mi dico, caspita, è pieno di compaesani che si fotografano con la fava, e io che pensavo che i Piemontesi fossero gente schiva. Allora vado ad aprire qualche foto per vederne la provenienza geografica esatta. Marta, d’altro canto, mi diceva che nel Monferrato questa usanza non c’è, e volevo verificare che fosse Torinese e delle valli. Apro a caso e leggo i commenti. Lingua strana…potrebbe essere piemontese? Non credo. Potrebbe essere Spagnolo! Forse, ma non mi quadra. Un momento, potrebbe essere Occitano…o Provenzale! Ok, penso, è Catalano.

Chi mi conosce sa che la mia familiarità con le lingue è scarsa o nulla, così seguo il simbolino della localizzazione su alcune di queste foto, e vengo effettivamente trasportato a Barcellona. Da loro il dolce si chiama Tortell de Reis.

Capisco che il colpo di fortuna (il primo di una lunga serie, quest’anno, è ovvio), sta nel fatto che #fava in italiano e catalano si scriva (e si dica?) allo stesso modo (in spagnolo: haba). E questo mi ha facilitato orrendamente le cose.

Nel frattempo un’amica che si trova a Parigi mi scrive che lei ha trovato la fava nella Galette de rois. Adesso le tocca regalarla a qualcuno.

Sempre più confuso, continuo a guardare foto catalane e francesi, in mezzo a cui ne trovo solo un paio localizzate a Torino e dintorni. Confermando per altro le mie aspettative sulla bugianenità dei compatrioti. Qualcuno aveva anche fotografato la storiella catalana stampata, in versi (sempre più difficile, signori), che spiegava mitologicamente la tradizione. Traduco con l’ausilio di Marta che nel frattempo mi ha raggiunto per dormire.

Ebbene, il Tortell catalano contiene due fave, una vera e una in ceramica colorata. Chi trova quella finta è incoronato Reis, chi trova quella vera… beh, paga la focaccia.

Seguendo l’hashtag #feve per intercettare i cugini francofoni, capisco dalle foto che da loro, della fava, rimane solo il nome. La bacheca è infatti piena di pupazzetti, che evidentemente si trovano all’interno del dolce, e chi li trova diventa rois.

Cosa ci insegna questa storia? 10 insignificanti cosette:

  1. Per me sarà un anno fortunato
  2. Esiste una bella tradizione dell’Epifania che lega Piemonte, Catalogna e Francia
  3. Mentre Francesi e Catalani hanno sincronizzato questa usanza con quelle cristiane, introducendo la figura del Re (dai Re Magi), qui ce ne siamo bellamente fottuti.
  4. L’Epifania coincide con l’inizio del Carnevale
  5. Si possono fare interessanti (piccole) scoperte etnografiche utilizzando come sola fonte Instagram e come unico strumento uno smartphone, in meno di un’ora, dal letto di casa
  6. Il Catalano somiglia al Piemontese, boya faus
  7. Probabilmente la tradizione si è diffusa dalla Francia, dove oggi ha assunto il maggior grado di astrazione (la fava è stata sostituita con un pupazzetto, ed è sostanzialmente diventata un gioco)
  8. La focaccia della Befana costa parecchio e m’ha tocat pagar. D’altronde la fortuna, nel mondo popolare, non può arrivare dal nulla. E se arriva va condivisa con la comunità, anche simbolicamente
  9. Sono già in ritardo, con un post sull’Epifania scritto il 7 gennaio
  10. Fotografate la vostra fortuna, pagatela, condividetela e taggatela col proprio nome

Buon inizio d’anno

P.S. Nel pomeriggio di ieri ho giocato a tombola e poker. La mia vincita è stata di circa 15 euro.

La Lachera dietro la maschera

"Carassa" - palo rituale della LacheraTra i posti dove sono “nato”, e dove sono ritornato, c’è anche Rocca Grimalda. Piccolo paese dell’Alto Monferrato, che vedi se stai andando da Alessandria verso Genova, prima che inizino le gallerie.

Laggiù c’è la Lachera, un Carnevale unico, di quelli che gli antropologi ci vanno matti, ne parlano, ne scrivono, ci bevono su. Noi che siamo etnografi della domenica, preferiamo parlare con Giorgio, che di Lachera ne sa più di tutti, perchè la fa, ne tiene le fila, la vive. La domenica è più bello, ci ha detto, tutti indossano la maschera, i costumi sono a posto, non manca nessuno. Però… se volete vedere la festa vera… dovete venire sabato sera.

E infatti durante la questua serale abbiamo respirato un clima di grande effetto, coesione, amicizia. Abbiamo visto finalmente in atto le danze di cui tanto avevamo sentito parlare: la giga (che vedete nel mio video qui sotto), il calissun, la lachera, la monferrina e la curenta. E tutto quello che abbiamo letto e sentito finalmente assume senso. Sei osservatore, è vero, ma dentro fino al collo, con il bicchiere in mano, il salame, la zuppa di ceci, e ringrazi le padrone delle case ospitanti. Particolarmente suggestivo camminare al buio sul crinale della collina.

L’accoglienza è stata ottima da parte di tutti, abbiamo fatto incontri incredibili, come sempre.

Certo, il giorno dopo c’era il sole, c’era tanta gente, il convegno sulla figura del Lacchè, i simpaticissimi e bravissimi ospiti del Carnevale di Benedello, dall’Appennino modenese… atmosfera molto carica. Si coglieva l’altra faccia, scavando nel profondo, nella storia, nella cultura, nel simbolo. La sera prima ci era sembrato di intuire il significato della tradizione in continuo divenire, nell’istante che si manifesta oggi, con una presenza reale, attuale, un ritrovo di amici, un rinnovarsi di legami antichi, lo stringersi di nuovi. Un significato molto concreto. C’erano i tradizionali personaggi del Carnevale (gli sposi, i Lachè, il bebè, gli zuavi, il guerriero, i trapulin…), ma soprattutto c’erano le persone.

Esperienza magnifica, entrambi i giorni.

Ma noi forse siamo etnografi del sabato, più che della domenica.

La vendetta di Django

DjangoLocandinaItaFacevo le medie. La professoressa ci aveva dato un tema sull’Iliade, qualcosa tipo “raccontane un episodio a modo tuo”. Ricordo che la mia Iliade era diventata un western: nella mia testa Achille era un vendicatore solitario, che covava una rabbia atavica e che ovviamente terminava la sua parabola con un duello.

Sì, perchè all’epoca ero stregato dagli spaghetti western: niente a che vedere con John Ford, con il mito della frontiera, con i classici americani. Io amavo Sergio Leone. E non era una cosa tanto normale, a metà anni Novanta, che un ragazzino di 13 anni fosse appassionato di film già vecchi di 30 anni. Salvo poi scoprire, dopo aver represso questa passione, che non ero l’unico.

La mia vendetta arriva, dopo quasi vent’anni, grazie a Quentin Tarantino. Django Unchained è lo spaghetti western definitivo.

Ci avevano già provato in molti, lo stesso Clint Eastwood con Gli spietati – film di tutto rispetto -, ma solo ieri ho ritrovato la vera anima del western all’italiana, quello senza morale, un pò sessantottino, terzomondista, ma anche violento e individualista, quello senza eroi, quello della legge del più astuto (non del più forte), quello iperbolico, barocco e parodistico, quello della risata amara, quello che le sparatorie e le scazzottate sono una liberazione dalle catene di film noiosi e ipocritamente moralisti. Quello che i buoni, i brutti e i cattivi non sono poi diversi, fanno parte della stessa razza, quella umana.

Tutto il cinema di Tarantino si ispira – tra le mille cose – alla produzione di serie B italiana e, almeno da Kill Bill in poi, deve qualcosa agli spaghetti western. L’omaggio che Django rende ai nostri anni d’oro è esagerato, assurdo, potente, divertente, coerente con lo stile tarantiniano. Personaggi cinici e spietati, sceneggiatura impeccabile al servizio di una classica storia di vendetta, cast grandioso e pienamente all’altezza della situazione, sangue e ammazzamenti. Il tutto in salsa western, con paesaggi mozzafiato, anche invernali, e una colonna sonora ovviamente azzeccatissima. Da segnalare i cameo di Franco Nero – che interpretò Django nel ’66 – e dello stesso regista Tarantino, che come al solito muore in modo spettacolare.

Sergio Leone si sarebbe divertito. E forse anche Omero.

Quei paesi che ci devi ritornare

Ci sono dei paesi che potrei definire magici. Sono depositari, più di altri e chissà per quali radicate ragioni, di saperi, misteri, memorie. Per le mie inclinazioni sono portato a notare i paesi “musicali”, quelli che vivono di esperienza sonora, dove la gente canta, dove il tempo è scandito dai suonatori.

In genere questi luoghi sono abitati da persone meravigliose, e quando ci passi tendi a volerci rimanere. Poi ritorni alla realtà, ma qualcosa si è mosso. Questi luoghi segnano, lasciano tracce: se li sai capire, sono capaci di illuminarti il mondo da punti di vista che mai avresti pensato. Somigliano a certi libri, ma io li preferisco, perchè il libro è esperienza privata. Il segreto di questi paesi, secondo me, sta nella socialità e nella condivisione.

Ne ho incontrati di posti così durante e mie piccole peregrinazioni, e ognuno di questi mi ha lasciato, in misura diversa, qualcosa. Cito Riva presso Chieri, Caprie, Portacomaro, Villar Focchiardo, ma non sono i soli. L’ultimo in ordine di tempo è un piccolo paese dell’Appennino bolognese, che si chiama Monghidoro.

Non dirò altro. Ci sono cose a cui la lingua non può arrivare. Lì, ad esempio, per capire, bisogna ballare.

E ballando, lì, ho conosciuto anche un’altra piccola comunità, formata dagli etnocoreologi che si occupano di danza tradizionale italiana: una manciata di persone squisite che arrivano da un pò tutto lo stivale, e ogni tanto si incontrano. L’ultima volta che ciò è accaduto ufficialmente, non ero ancora nato.

Qualche settimana fa, in questo incrocio di comunità, ho partecipato al mio primo convegno come relatore (con tanto di “cerimonia d’iniziazione” a suon di applausi).

Non poteva essere inizio migliore.

Ci sono paesi che prima o poi ci devi andare. Ma in certi paesi, invece, ci devi ritornare.

Io a Monghidoro ci ritorno.

P.S.

Se a qualcuno interessa, a proposito di condivisione, allego la presentazione della mia relazione Liscio e ballo a palchetto in Piemonte, ricca di foto e riferimenti audio\video (scaricabile in ppt seguendo il link).
Se non fosse ovvio, ricorderei che chi volesse utilizzarla in qualche forma, in linea di massima può farlo, ma è comunque auspicabile che prima mi contatti, e che poi citi la fonte. E ricordo anche che il saggio di riferimento, in cui tutto è spiegato, uscirà presto all’interno del libro curato da Noretta Nori, Viaggio nella danza popolare in Italia .2 – Itinerari di ricerca del Centro Nord, edito da Palombi. (Intanto è già uscito il primo volume – Guida allo Studio della funzione e della forma -, che è illuminante…)

E bene venga maggio…

La primavera è iniziata da un bel pò, anche se non si direbbe. Infatti non ho ancora preso un gelato cioccolato e limone, e questo significa che alcune cose stanno cambiando.

Si potrebbe quasi dire che inizio ad assaporare il gusto di qualche soddisfazione. No, la musica non c’entra, quella rimarrà il sogno che è, ma qualcosa si sta muovendo.

Ieri mattina ho firmato un contratto con l’Università di Torino, per un progetto molto interessante – lavoro a tempo determinatissimo, sia chiaro – che riguarda… boh, difficile da spiegare (e da capire), ma c’entrano la produzione audiovisiva, la semiotica, lo strutturalismo, il web semantico e un sacco di parole inglesi che mi toccherà imparare. Finalmente, dirà qualcuno.

Intanto lunedì 14 maggio presenteranno al salone del libro di Torino la prima pubblicazione a cui ho ufficialmente dato il mio piccolo contributo come autore di saggi. Si tratta di Le fonti musicali in Piemonte III – Asti e provincia, edito da LIM, terzo volume di una collana di cataloghi di fondi musicali piemontesi. I miei articoli riguardano i fondi che ho censito nell’astigiano, in particolare la collezione di strumenti musicali del Museo Etnologico Missionario di Colle Don Bosco e gli archivi di alcune bande – ovvio -: quelle di Agliano Terme, Castiglione d’Asti, Tigliole e Portacomaro. Ancora l’amato Monferrato che mi ha fatto conoscere ottime persone, qualche personaggio indimenticabile, e intensi barbera.

Infine dovrebbe essere ufficiale che entro fine anno uscirà anche un altro mio saggio, pubblicato su un libro presumibilmente fighissimo, in tre volumi, che raccoglierà saggi dei più importanti etnocoreologi italiani (e io sarei fra questi?) sulla danza popolare in Italia. Ovviamente io ho scritto di ballo liscio, ballo a palchetto. Forse il saggio sarà corredato da un video che ho montato per l’occasione, una chicca che vi posto qua sotto.

La mitica banda di Caprie ha pensato di provare a ricostruire il vecchio modo di suonare e ballare della prima metà del Novecento, con le suonate raggruppate in quatriglie – cioè in suite di 4 pezzi – e l’uso della corda per disciplinare l’affluenza di ballerini paganti. Ma maggiori informazioni su questo appassionante mondo le trovate nella descrizione del video su Youtube.

Si tratta ancora di un tentativo, ma confido che avrà seguito… il risultato è stato comunque molto interessante. Ve lo giuro. Tra l’altro ho presentato io quella serata