Dice che era un bell’uomo…

Sono anni che faccio un gioco con un amico, un ex compagno di banco del liceo. Le strade ci hanno allontanato, come spesso succede, ma cascasse il mondo ci mandiamo tre sms all’anno, in tre date precise: chi si ricorda prima inizia la frase, l’altro risponde e la conclude, a volte con piccole variazioni. Le date sono il 29 settembre (“seduto in quel caffè io non pensavo a te”), il 21 dicembre (“4 gionni a nnatale”) e oggi, il 4 marzo.

“Dice ch’era un bell’uomo…e veniva dal mare”.

La vita è fatta di tante cose, grandi e piccole, e non mi stanco mai di dirlo, la musica ne è parte integrante. Le canzoni, il mondo di suoni in cui siamo immersi, ci formano, ci aiutano, ci parlano, ci rispondono, ci fanno arrabbiare, ci emozionano, ci commuovono e via dicendo. Le parole sono cantate da voci amiche, e quella di Lucio Dalla era, per quanto mi riguarda, una delle più vicine.

Mi è dispiaciuto sapere della sua, per così dire, trasfigurazione in angelo. In pochi minuti la bacheca di facebook mi si è riempita di sue canzoni, nei cui testi, chi più chi meno aveva cercato parole che in qualche modo parlassero di morte, e ho scoperto che ce ne sono parecchie. Ma si tratta quasi sempre di una visione molto serena, una liberazione, e mi piace pensare che sia stato davvero così. Io ho scelto Cara, una delle mie canzoni preferite in assoluto (“…ma so già cosa pensi, tu vorresti partire, come se andare lontano fosse uguale a morire, e non c’e’ niente di strano ma non posso venire”) e La casa in riva al mare, una di quelle che è difficile ascoltare senza commuoversi nel finale (“…e poi fu solo in mezzo al blu. Vengo da te, Maria”).

So già che mi dilungherò troppo.

Qualcuno dice che gli assomiglio… certo, non è un complimento, ma non si può negare che barba e occhiali ci siano, e poi spesso uso in concerto un cappello bianco simile a quello che portava lui negli anni ’90 – periodo Attenti al lupo. E poi è stato una fonte di ispirazione a cui attingere… diciamo che da anni mi viene difficile concludere un concerto con i Tavernacustica senza l’immancabile Disperato erotico stomp – presente in scaletta dai tempi in cui il gruppo era in versione embrionale e si chiamava Cerone & Friends – uno di quei pezzi che nessuno si stanca mai di ascoltare: ironico, istrionico, dissacrante, geniale.

Fra i cantautori è stato il più “cantante”, e uno dei più liberi dall'”impegno a tutti i costi”, anche in tempi non sospetti. Aveva una delle voci più interessanti del panorama internazionale – ancora oggi, non più giovane – in bilico fra tradizione (pop melodica, popolare, lirica) e sperimentazione estrema (jazz, progressive). Nell’incredibile estensione e intonazione perfetta, che mi hanno sempre lasciato esterrefatto ascoltandolo dal vivo, la sua voce poteva essere morbida, dolce, carica di bassi, o acutissima, graffiante, sgraziata. Indimenticabili i suoi vocalizzi tra il bebop e lo skat, tra l’assurdo straniante e l’ironia più ludica: usava la voce come voleva. Ricordo un’esibizione al Pavarotti & Friends, dove il tenore cantava Caruso e Dalla gli faceva il controcanto per terze superiori. Ma indimenticabili sono anche le sue parole.

All’inizio della carriera affidava ad altri la stesura dei testi (la maggior parte sono del poeta bolognese Roberto Roversi), fino alla seconda metà degli anni 70, quando conobbe Francesco De Gregori. Da lui imparò l’abilità nell’inanellare frasi apparentemente sconnesse che hanno senso se viste da lontano, e in cambio gli lasciò i suoi accordi complessi, con cui sporcare le canzoni, e qualche sfumatura nel modo di cantare.

L’ho visto l’anno scorso in concerto proprio con De Gregori alla reggia di Venaria, e fu davvero una grande emozione. Caruso da pelle d’oca, quando la ripresa del ritornello, con il salto d’ottava, ti tira dentro un teatro lirico, dove rivive una vecchia romanza napoletana, che ti butta in una tragedia personale, che si consuma su un balcone, che si sporge verso il mare.

Ho apprezzato anche la sua ultima apparizione televisiva a Sanremo 2012. La canzone cantata da Carone era, secondo me, una delle migliori: la mano di Lucio – e la sua potente voce – si sentivano.

Sempre originale, sempre imprevedibile, sempre sopra le righe.

Auguri di buon compleanno, vecchio gatto senza padrone.

Ma sì, è la vita che finisce, ma lui non ci pensò poi tanto, anzi si sentiva già felice e ricominciò il suo canto

Sotto il cielo di Fred

Se vogliamo parlare di musicisti che hanno lasciato una traccia nella nostra Torino, non possiamo dimenticare il grande Fred Buscaglione. Alla fine degli anni Cinquanta, insieme al napoletano Renato Carosone, ha rivoltato la canzone all’italiana, già vecchia anche se sostanzialmente appena nata. Ci ha innestato lo swing, i ritmi latini, massicce dosi di ironia e malizia, puntando sul look da cinema noir che ha lo ha reso famoso.

Suo malgrado è stato consacrato nella mitologia pop da una morte spettacolare – incidente stradale sulla sua auto rosa – proprio all’apice del suo successo. Probabilmente la sua carriera sarebbe durata ancora poco: era il 1960 e stavano arrivando i primi cantautori.

Indimenticabili e di grande impatto ancora oggi – sopravvissute a oltre 40 anni di trasgressioni rock – le interpretazioni dei suo pezzi: teatralità, energia, mestiere di chi si è fatto le ossa davanti all’esigente pubblico torinese, nelle bettole, nelle sale da ballo, nei night club.

Oggi lo ricordiamo con un premio a lui dedicato, manifestazione che si svolge qui a Torino. Quest’anno non ho partecipato al concorso, ma suonerò alla Notte Rossa Barbera, sabato prossimo 11 febbraio (al Bivio Concept Cafè e poi a Eataly), e forse accompagnerò uno dei semifinalisti, CarloZeta, durante la sua esibizione.

Ho scoperto da poco questa canzone di Fred che non riesco a togliermi dalla testa: Love in Portofino. Forse perchè amo quella piccola affollatissima baia – come si amano le cose proibite -, o perchè adoro il sinuoso ritmo di rumba-beguine, che mi trascina lontano con il suo avvolgente esotismo da balera. Tanto da averci dedicato una canzone. O sono gli anni ’50 stessi ad attirarmi, vittima di una sindrome da età dell’oro, come il protagonista dell’ultimo sognante film di Woody Allen.

E poi si vedrà

Da molti mesi questo blog pare disabitato. Io sono vivo, solo che i pensieri, quando trovano il tempo di costruirsi, li tengo per me.

Intanto l’inverno si fa spazio tra un autunno poco convinto e un Natale che ci coglierà di sorpresa, come sempre. Io mi fermo un attimo a pensare, dopo un periodo piuttosto frenetico che non mi ha lasciato molto riflettere sul passato e sul futuro. Faccio i conti e scopro che non è andato male questo anno, ma come al solito mi ritrovo in bilico su un baratro di incertezze.  Un anno fa avevo più paura, nonostante avessi da poco condiviso lo stesso palco con Nada, per una manciata di minuti che vi ripropongo (e che vi sia d’augurio): Ave Maria di Fabrizio De Andrè

La musica in tutte le sue forme (soprattutto quelle del ragionamento su di essa) mi ha regalato qualche soddisfazione e molte delusioni, ma conservo una certa fiducia nel futuro, cosa rara di questi tempi. Aspetto che escano le pubblicazioni a cui ho collaborato, provo a risistemare i tavernacustica, batto nuove frontiere della professionalità paramusicale, mi rilancio nelle serate da ballo, accantono il sogno delle mie canzoni, concludo l’esperienza intensa e non sempre appagante del Servizio civile. E poi si vedrà.

Auguri a tutti.

P.S. Vi rendo partecipi di un altro bel momento del concerto dedicato a La Buona Novella, condiviso con i Perturbazione: Tre madri

Viva il dottore (un anno dopo)

Estate, tempo di balli a palchetto.

Il primo luglio ricorre l’anniversario della mia laurea specialistica. Vorrei ricordare l’evento soprattutto per un motivo, e cioè il bel regalo che mi hanno fatto gli amici della Banda di Caprie e di Villar Focchiardo venendo a suonare alla discussione

Ebbene sì. Per chi non lo sapesse ho fatto delle ricerche in alcuni nuclei bandistici della Val di Susa, con l’intento di documentare quello che rimane della grande tradizione piemontese delle squadre da ballo (o quintèt, o musicant…), ovvero quegli organici bandistici ridotti che suonavano sui balli pubblici e nelle aie, improvvisando le parti di accompagnamento secondo regole condivise. Con piacevole sorpresa ho scoperto che questa tradizione musicale  si è qui solo riadattata e rinnovata. Insomma, ho trovato alcuni simpatici “anelli mancanti” tra la squadra da bal anni Trenta e il liscio moderno.

La sala lauree di Scienze della Formazione a Palazzo Nuovo è stata quindi invasa da una piccola delegazione di musicanti che con bossotuba, trombone, trombe e clarini hanno colorato la mia investitura… Potete ascoltarne l’esibizione qui: http://soundcloud.com/dariodeseppo/viva-il-dottore. Hanno avuto la bellissima idea di adattare un brano tradizionale delle feste di leva: il mio personale rito di passaggio non poteva essere sottolineato meglio!

Segnalo ancora, a proposito, due importanti appuntamenti che si svolgeranno domenica 10 luglio: al pomeriggio, a Riva presso Chieri, in occasione della recente riapertura del Museo del Paesaggio Sonoro, avrà luogo una “Gem Sescion” di musicanti da ballo, in cui si sperimenterà l’improvvisazione su temi prestabiliti di valzer, polche e mazurche – a guidare le danze saranno I musicanti di Riva presso Chieri; la stessa sera, a Caprie, in occasione della festa patronale e dei festeggiamenti per i 110 anni della banda, la squadra locale (I Feu e fiame) suonerà sul ballo (nel video potete vedere un sunto del 2009): quest’anno parte della serata sarà dedicata ad un primo tentativo di ricostruzione del vecchio ballo a quatriglie.

Le quatriglie rappresentano la tradizionale maniera di organizzare il ballo: 1 biglietto per una suite da 4 danze (liscio, brani brevissimi), al termine della quale i ballerini venivano letteralmente spinti fuori dal ballo a palchetto con una corda per far spazio ai nuovi. Un sistema a giri simile a quello delle giostre (e le strutture viaggianti piemontesi per il ballo, rotonde, le ricordano un pò). Ma se ne volete sapere di più potete fare due cose: leggere la mia noiosissima tesi Le bande e le squadre da ballo. I repertori tra  liscio e tradizione, o venire su a Caprie il 10… a presentare la serata sarà il sottoscritto!

Il Museo del Paesaggio Sonoro

Domenica scorsa, giorno di Sant’Albano, a Riva presso Chieri è stato inaugurato il Museo del Paesaggio Sonoro.

Ecco lo specchio della memoria sonora della comunità di una piccola zona agricola del Piemonte che non ha conosciuto la ricchezza raffinata di Torino, nè la la fortuna enogastronomica della Langa. Pianura, terra, meliga, maiali, cortili. E uccelli,  balli a palchetto, campanili. E in tutto questo, soprattutto, gente, uomini e donne.

Il Museo del Paesaggio Sonoro va vissuto, perchè parla di un mondo che è stato, e di un mondo che è. Ogni oggetto ha una storia, ogni storia ha una bocca che l’ha raccontata e un’orecchio che l’ha sentita, dietro ogni oggetto ci sono persone, dietro le persone c’è un complesso sentire comune di conoscenze e reti interpretative che chiamiamo tradizione, e da cui qualcuno ogni tanto emerge, lancia un messaggio e poi ritorna dentro.

Uno di questi è certamente Domenico Torta, maestro, professore, compositore, musicista, attore, ricercatore, uomo, che in quel mondo è nato, e poi è riuscito ad allontarsi quel tanto che basta per poterlo guardare da fuori, l’ha compreso, l’ha pensato, l’ha ritrovato, ci è rientrato e ce l’ha finalmente restituito. Nasce così, dopo decenni di ricerca, il Museo del Paesaggio Sonoro. A dargli voce ci sono I Musicanti di Riva presso Chieri, di rara bravura interpretativa, con uno spettacolo estremamente divertente ed emozionante, pieno di gag musicali sbalorditive.

L’impatto con questa realtà, qualche anno fa ancora provvisoria, è stato per me forte, importante, e sono orgoglioso di aver potuto dare il mio piccolo contributo. Mutare prospettiva, entrare ed uscire nello sguardo e nell’udito degli altri (o siamo noi?) in un gioco multimediale e multisensoriale di immagini, rumori, animali e cose. Corteccia, scarti di macellazione, argilla, metallo, sedie, barili, plastica, zucche, bottiglie, materia che diventa  idea, pensiero, suono, sogno, paesaggio, cultura, vita.

Müsica da poc, musica fatta di niente. Questo siamo, dopotutto.

Vite

Mi divincolo tra le varie anime che abitano il mio corpo, a dire il vero un po’ provato dalle allergie di stagione.

Sono il ragazzo tappabuchi della biblioteca, sono il ricercatore scalcinato in polverosi ripostigli di cianfrusaglie musicali, sono il musicante che accetta tutto pur di intascare un bicchiere di vino e qualche sorriso, sono il montatore video per il nuovo fantastico allestimento del Museo del Paesaggio Sonoro che presto vedrà la luce, sono lo scrutatore ai referendum per cui devi votare, sono contento che il vento stia cambiando direzione – da Sanremo a Pisapia -, sono il cantautore talmente indipendente che si ascolta solo lui, insomma sono io. Ma anche no.

Per vivere due o tre vite ci vorrebbero due o tre vite, diceva un amico che comunque ce la sta facendo in una sola, ma via, ci si prova… E si incontra la differenza tra il fare e l’essere.

Trovate qui un pò di luoghi e situazioni in cui potete incontrami a breve, in una qualche forma…

Habemus papam

Sono andato a vedere Habemus Papam di Nanni Moretti al cinema Eliseo di Torino. Lo dico subito: il film mi è piaciuto. La leggerezza ironico-chic morettiana si insinua in un ambiente inusuale per il regista romano, ovvero un infinito conclave che imprevedibilmente intrappola in Vaticano cardinali, guardie svizzere e uno psicoterapeuta non credente. Il motivo è che il neoeletto papa non è per nulla convinto del suo ruolo e rifiuta la pubblica uscita.

Il pretesto, su cui si sviluppa una trama semplice, ma dai risvolti a tratti molto divertenti, è un’eventualità che entra nel girotondo delle cose possibili se è vero che, come recita la sountrack del film – una canzone di Mercedes Sosa, todo cambia.

Già, il mondo cambia, e il problema può porsi anche nel vissuto interiore del vicario di Cristo: in questo caso un papa molto umano, che forse non a caso nelle fattezze fisiche somiglia un pò a Giovanni XXIII e un pò a Giovanni Paolo II. A dire il vero manca un risvolto sociale, che a un certo punto mi sarei anche aspettato, ma alla fine è giusto così. Si tratta di un malessere individuale, in cui simbolicamente (e paradossalmente) chiunque potrebbe riconoscersi.

Ci piacciono le situazioni paradossali che si creano attorno al personaggio interpretato da Moretti stesso, lo psicanalista chiamato a risolvere i problemi del Santo Padre. Forse il finale è un pò affrettato, ma ho gradito questa sorta di carnevale al contrario, dove l’istituzione più antica, rigida e conservatrice della nostra società è costretta a lasciar cadere la propria maschera, svelando un’umanità normalmente viziata, che la rende sicuramente più simpatica.

Peccato che da “Avvenire” si sia già lanciato l’appello di boicottaggio (con relativa apologia di critica preventiva). O meglio, era prevedibile. D’altronde sono anni che ci si aspetta dalla Chiesa o dai suoi organi qualche gesto, o qualche dichiarazione non prevedibile,  proprio come accade nel film, e puntualmente purtroppo non arriva.

Viva le Barbuire!

Ieri pomeriggio, vista la bella giornata, ho pensato che poteva essere una buona idea andare a seguire un carnevale. Ho optato per il rinato Carnevale del Lajetto, piccola borgata montanara nel territorio di Condove. In effetti, se escludiamo che mi sono perso a causa di informazioni sbagliate, cartellonistica poco chiara e navigatore dimenticato (ma di cui non mi sarei fidato), è stata una buona idea.

Il carnevale al Lajetto è stato riproposto nel 2010 per la prima volta dopo più di 50 anni. Grazie al lavoro di alcuni antropologi e in base ai ricordi degli anziani, si sono ricostruite tutte le fasi del rituale, caratterizzato dalla presenza delle Barbuire. Le Barbuire sono dei personaggi mascherati in modo assolutamente grottesco, che rivestono alcuni ruoli definiti all’interno di una sorta di dissacrante rappresentazione  tipicamente carnevalesca.

Come per ogni evento di questo genere, una qualsiasi descrizione non potrà mai sostituire la sensazione che si prova vivendolo. Dal momento in cui parte il giro, con la squadra ballabili in testa – in questo caso i Sunadur ‘d Moce – entri a far parte del gioco. Nulla potrà risparmiarti la segatura sparsa dai balconi, le palle di neve lanciate a tradimento alle spalle, il pantano che ti fa scivolare tra le viuzze minuscole, il fango sparso in faccia da Barbuire irriverenti, che urlano versi incomprensibili, fanno gestacci, mimano accoppiamenti, muoiono, resuscitano, prendono a calci i presenti.

Tutto si conclude con il taglio della testa del gallo appeso ad un albero. Rituale che si ritrova in molti altri carnevali (nell’Astigiano di solito è un pitu, un tacchino) e che ha alto valore simbolico – classica morte dell’inverno, propiziare la bella stagione ecc… Tranquilli, non era una gallo vero (come una volta). Purtroppo, aggiungerei.

E’ stato un pomeriggio divertente, un carnevale di grande forza e impatto, anche per il suggestivo teatro in cui si svolge – gli stretti vicoli tra i muri di pietra delle vecchie case – e per le bellissime maschere ricalcate fedelmente su quelle tradizionali.

Bilancio della giornata. Ricoperto di vario schifo ecosostenibile (niente a che vedere con le bombolette di stelle filanti chimiche), ho ascoltato e registrato una buona dose di ballabili per piccole formazioni bandistiche di cui notoriamente sono ghiotto;  ho vinto una gara di sguardi contro una Barbuira (vi assicuro, faceva davvero paura); con un’altra invece ho ballato un valzer: alla fine mi ha ringraziato alzandosi la gonna e mostrandomi, naturalmente, la sua rosa.

Ma sì, parliamo di Sanremo

Ma sì, parliamo di Sanremo… quest’anno lo spettacolone è stato un pò più sobrio rispetto alle pompose edizioni precedenti che spesso sfociavano nel kitch.

A dire il vero la conduzione di Morandi ha lasciato a desiderare: continue incomprensioni, errori, ritmi spezzati, scarsa professionalità nell’affrontare gli imprevisti della diretta…e le due vallette non lo hanno certo aiutato. Belen si è comportata abbastanza bene, ma la Canalis sembrava incapace di qualsiasi cosa. Pareva che fosse in tv per la prima volta, non ne azzeccava una. Luca e Paolo un pò troppo politicamente corretti, ma Sanremo è Sanremo e tutto sommato hanno fatto il loro dovere. L’intervento di Benigni non è stato fra i suoi migliori, ma gli si perdona tutto…e comunque c’è bisogno anche di supportare un patriottismo sano, una passione per il nostro complicato e magnifico paese al di là delle solite divisioni.

In tutto questo le canzoni hanno ritrovato una loro centralità, e secondo me il livello medio era più alto rispetto agli ultimi anni. Ho trovato imbarazzanti relativamente pochi pezzi: forse solo quelli di Max Pezzali, Luca Barbarossa, Al Bano e Anna Tatangelo. La canzone di Patty Pravo non era del tutto tremenda, ma lei è assolutamente insostenibile. Mi sono piaciute le canzoni di Madonia e Battiato, di Van De Sfroos e ho trovato interessante quella di Tricarico, peccato che non l’abbiano cantata gli Avion Travel. Quella di Vecchioni è molto bella, la mia preferita da subito. Credevo che vincesse il duo Emma-Modà (canzone tutto sommato ben costruita), seguito a ruota da Vecchioni, ma forse il fatto che il televoto pesasse un pò meno ha favorito il cantautore milanese. Oppure gli italiani non sono così pecoroni come li crediamo…che questa vittoria sia un segno dei tempi?

Chiamami ancora amore è un grido di speranza dolce e potente, una dichiarazione d’amore per l’umanità in pieno stile vecchioniano: non sembra scritta apposta per Sanremo, errore in cui cascano spesso anche i migliori.

Forse il professore ha ragione, la strada giusta potrebbe essere una canzone d’autore popolare, cioè esteticamente bella, capace di affrontare anche tematiche profonde ma non per questo pesante, noiosa e presuntuosa. Cantautori meno snob al servizio di un pop più raffinato, insomma. Ci proveremo.

Per stavolta niente Sydney…

Alla fine non ho passato la selezione finale per accedere alla You Tube Symphony Orchestra. Per la mia categoria, improvvisazione ritmica, hanno meritatamente vinto un violinista americano di probabili origini mediorientali e il chitarrista brasiliano di possibili origini greche di cui forse vi ho già accennato…

Non nascondo un velo di delusione, insomma, per qualche minuto ci avevo quasi creduto… però alla fine sono ugualmente soddisfatto. Il livello era certamente alto. Sicuramente ci riproverò.

Tra l’altro mi pare che la rappresentanza italiana in YTSO quest’anno sia abbastanza ampia, con 4 musicisti (forse solo gli Stati Uniti ne hanno di più, per ovvi motivi), segno forse che il nostro paese non è in decadenza creativa come qualcuno crede o come qualcuno vorrebbe. Ho spesso sostenuto che non è vero che in Italia ci siano pochi bravi musicisti, ma è vero che la maggior parte di loro sono costretti a smettere perchè qui mancano degli sbocchi lavorativi musicali seri, manca la tutela degli artisti e anche un rispetto culturale del loro ruolo. Da una parte i musicisti stessi dovrebbero prendere consapevolezza di quello che fanno, sapere ad esempio che suonare gratis danneggia la propria posizione e quella di tutta la categoria, d’altra parte bisognerebbe riformare sistemi obsoleti e penalizzanti come la Siae e l’Enplas, magari prendendo spunto da più avanzate regolamentazioni europee.

Lascio sbollire la mia influenza stagionale con queste banali considerazioni.